
Negli ultimi mesi, le dichiarazioni di Bill Gates sull’intelligenza artificiale hanno riacceso un dibattito globale che non risparmia il mondo della salute mentale.
Secondo il fondatore di Microsoft, entro dieci anni l’IA sarà in grado di sostituire molte delle funzioni oggi svolte da medici e insegnanti, aprendo le porte a una vera e propria “era dell’intelligenza gratuita”. Un futuro in cui l’accesso alla conoscenza, alla diagnosi e persino alla cura potrebbe diventare universale, immediato e potenzialmente gratuito.
Questa visione, tanto affascinante quanto controversa, solleva interrogativi profondi nel campo della salute mentale. Quali saranno gli impatti dell’intelligenza artificiale sull’accesso alle cure psichiatriche e sulla relazione terapeutica? In che modo l’IA potrà supportare – o minacciare – l’essenza stessa del lavoro clinico: la relazione umana, l’ascolto, l’empatia?
Ma soprattutto: cosa comporta davvero questo scenario per la psichiatria, per la psicoterapia e per il futuro della cura?
Indice
- L’ era dell’intelligenza gratuita: tra utopia e realtà
- Opportunità e rischi per la salute mentale
- Il ruolo insostituibile dell’essere umano
- Quale futuro per la psichiatria?
L’ era dell’intelligenza gratuita: tra utopia e realtà

Bill Gates descrive con entusiasmo un futuro in cui l’accesso a competenze di altissimo livello sarà finalmente democratizzato.
Oggi, afferma, “la competenza medica e didattica è ancora un bene raro, custodito da professionisti eccezionali”. L’intelligenza artificiale potrebbe cambiare tutto questo, offrendo consigli medici e tutoraggio educativo di livello avanzato, disponibili per chiunque e gratuitamente.
In particolare, nel campo della salute mentale, ciò potrebbe significare superare le storiche carenze di specialisti nelle aree rurali, nei contesti socioeconomicamente svantaggiati o in situazioni di emergenza, dove l’accesso al supporto psicologico è spesso compromesso.
Opportunità e rischi per la salute mentale
L’intelligenza artificiale può offrire strumenti di screening, diagnosi precoce, monitoraggio e supporto psicologico sempre più sofisticati.
Applicazioni già esistenti come Go Healthy & Co. permettono oggi di rilevare segnali di disagio psicologico attraverso l’analisi del linguaggio, dei comportamenti online e dei parametri biometrici, andando a costituire un fenotipo digitale. Alcuni algoritmi sono in grado di prevedere con buona accuratezza ricadute depressive o crisi psicotiche, e chatbot terapeutici operano 24 ore su 24 offrendo un primo livello di ascolto.

Tuttavia, lo stesso Gates ammette che la velocità di questa trasformazione è “profonda e persino un po’ spaventosa”, e che “non ci sono limiti visibili” a ciò che l’IA potrà fare.
Questo scenario solleva interrogativi etici e clinici non trascurabili: la relazione umana è sostituibile?
L’empatia, l’intuizione clinica, la co-regolazione emotiva e il “sentire” dell’altro sono ancora oggi pilastri della cura psichiatrica e psicoterapeutica. E sono, a oggi, tratti propri dell’esperienza umana vissuta, difficilmente replicabili da un algoritmo, per quanto raffinato.
Il ruolo insostituibile dell’essere umano
Gates stesso riconosce che ci saranno “attività che terremo per noi”. Un’affermazione che, letta con occhi clinici e cuore aperto, risuona profondamente anche nel nostro campo. In ambito psichiatrico, questa frase si traduce nell’arte sottile e potente della relazione terapeutica: la costruzione di un’alleanza che non è mai data una volta per tutte, ma che si rinnova, seduta dopo seduta, nella trama invisibile delle parole dette e di quelle taciute.
È nella gestione delle ambivalenze che si cela la sapienza del terapeuta: il saper restare accanto anche quando il paziente vacilla, il non ritirarsi di fronte al rifiuto, il comprendere che dietro a un attacco può celarsi una domanda carica di emozioni. È nel lavoro sulle difese inconsce che si dispiega la delicatezza di chi sa leggere i sogni, i lapsus, i silenzi, come mappe segrete verso un sé più autentico.
Ma, soprattutto, è nella capacità di adattare l’intervento al ritmo interiore dell’altro che il terapeuta si fa artigiano della cura. Ogni paziente porta con sé una partitura emotiva unica, fatta di timidezze, traumi, speranze e memorie. E noi, come musicisti attenti, dobbiamo saperci accordare a quella musica, senza forzature, senza fughe in avanti.
In altre parole, curare non è solo conoscere: è sentire. Non è solo padroneggiare una tecnica, ma essere presenti con tutto sé stessi. Restare, anche quando non si sa esattamente dove si stia andando. È fidarsi del processo, senza rinunciare alla responsabilità. È entrare in una stanza con l’umiltà di chi sa di avere strumenti, ma anche con la reverenza di chi sa che ogni incontro può cambiarti.
E questo resta, per ora, il cuore pulsante della nostra professione: una relazione viva, umana, imperfetta. E per questo profondamente trasformativa.
Quale futuro per la psichiatria?

Non possiamo più permetterci di porci questa domanda con spirito difensivo, come se il compito fosse solo quello di proteggere un fortino assediato. Il cambiamento è già in atto. Come psichiatra, credo che la vera sfida non sia quella di resistere, ma di trasformare: accogliere l’innovazione senza smarrire l’essenza, integrare l’intelligenza artificiale non come antagonista, ma come alleato consapevole, etico, al servizio della cura.
L’IA, con la sua capacità di elaborare dati in tempo reale, può divenire uno strumento formidabile nella diagnosi precoce, nella personalizzazione dei trattamenti, nel monitoraggio continuo del decorso clinico e nell’abbattimento delle barriere geografiche e culturali che ancora limitano l’accesso ai servizi. Ma attenzione: tutto ciò è utile solo se non perde di vista ciò che ci rende umani. Nessun algoritmo potrà mai sostituire la complessità del rapporto terapeutico, l’intimità silenziosa di uno sguardo che accoglie, la tensione empatica che si crea tra due esseri umani che cercano insieme un senso al dolore.
La vera domanda, oggi, non è se dobbiamo usare l’IA, ma come. Come possiamo impiegarla per potenziare la cura senza snaturarla? Come possiamo costruire una medicina mentale più evoluta, senza cadere nell’illusione che la tecnologia possa bastare da sola?
E ancora:
Come garantire che l’intelligenza artificiale non disumanizzi la salute mentale, ma ne espanda il potenziale terapeutico?
Quali aspetti della relazione – l’ascolto profondo, il tempo condiviso, l’imprevedibilità dell’incontro – sono davvero irrinunciabili?
Come dobbiamo ripensare noi stessi, in quanto professionisti della mente, in un mondo sempre più algoritmico, dove il sapere sembra spesso coincidere con il calcolo?
Le parole di Bill Gates, secondo cui “ci saranno attività che terremo per noi”, non vanno lette come una minaccia, ma come un invito. Un invito a distinguere, con coraggio e lucidità, ciò che può essere delegato da ciò che deve restare umano. A coltivare una nuova alleanza tra tecnica e presenza, tra intelligenza artificiale e intelligenza relazionale.
È tempo di costruire insieme un nuovo paradigma della cura: più accessibile, più preciso, più intelligente ma sempre ostinatamente, profondamente umano.

Caro Davide,
non sono un clinico, ma cerco di comprendere in modo riservato e silenzioso il lavoro che svolgete ogni giorno, in particolare nella realtà comunitaria.
Detto ciò, una modesta idea me la sono fatta, e ritengo sia necessario guardare con curiosità all’evoluzione del mondo digitale, integrato in una società che, peraltro, si è evoluta nel corso dei millenni.
Penso che la sensibilità, il super-io e, in buona sostanza, l’etica debbano guidare questo cambiamento epocale che stiamo vivendo.
Ciao Fabio, concordo su tutto, solo la relazione ci salverà come operatori della salute mentale e prima ancora come esseri umani. Conoscenza e informazioni sono alla portata di tutti, per fortuna, ma non bisogna disperdere il lato umano, unico sostegno del dato clinico.